SUCCESSIONE NEL TEMPO DI CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO

I CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO

Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro del settore del credito stipulano un contratto collettivo nazionale che prevede, tra l’altro, un premio di produttività per i lavoratori in servizio al momento della stipula del contratto.

Lo stesso contratto rimette alla contrattazione aziendale la determinazione dei parametri per la quantificazione del premio.

Un dipendente di una banca, iscritto ad un’organizzazione firmataria del predetto contratto, pochi mesi dopo la stipula del contratto collettivo consegue il diritto alla pensione e cessa dai servizio.

Successivamente viene firmato anche il contratto aziendale, integrativo dei predetto contratto collettivo, che fissa il contenuto economico del premio e il dipendente chiede pertanto al suo ex datore la corresponsione dello stesso.

La banca si rifiuta sostenendo che il contratto aziendale ha limitato i benefici ai soli lavoratori in servizio al momento dell’entrata in vigore del contratto aziendale.

I contratti collettivi di lavoro: rapporti tra contratti collettivi e legge e tra contratti di diverso livello

Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra 1412 datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed una organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti stipulati sul territorio nazionale.

Esso si caratterizza:

per i soggetti: in quanto viene stipulato tra parti, di cui lima almeno, quella dei prestatori di lavoro, deve essere costituita da soggetti coalizzati;

per oggetto: in quanto con esso si intende predeterminare con carattere impegnativo tra le parti, le clausole e le condizioni futuri contratti dei singoli prestatori appartenenti alla categoria.

Il nostro ordinamento ha conosciuto varie tipologie di contratti collettivi (contratti corporativi, contratti previsti dall’art. 39 Cost., etc. …), ma l’unico tipo di contratto che attualmente viene stipulato è il contratto collettivo di diritto comune, così denominato in quanto regolato dalle norme del diritto civile in materia contrattuale.

Tale tipo di contratto vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali (di datori e lavoratori) che lo hanno stipulato.

Nella dinamica della contrattazione collettiva si individuano due tipi di contratto collettivo:

contratto collettivo unilateralmente sindacale: è quello stipulato da un singolo datore di lavoro con l’organizzazione collettiva dei lavoratori.

contratto collettivo bilateralmente sindacale: è quello stipulato da contrapposte associazioni sindacali di datori di lavoro da un lato e di prestatori di lavoro dall’altro.

I rapporti di lavoro sono regolati da più fonti (leggi, contratti nazionali, aziendali) ed occorre quindi esaminare i problemi derivanti dalla coesistenza di queste fonti.

In particolare occorre esaminare i rapporti tra:

a) contratto collettivo e legge: la regola generale è che quando il contratto collettivo contiene deroghe” rispetto alle disposizioni di legge, quest’ultima dovrebbe prevalere. Tale criterio viene però attenuato dal principio di favore verso il lavoratore (cd. favor prestatoris) che fa prevalere, tra più fonti regolatrici del rapporto di lavoro, quella più favorevole verso il lavoratore; quindi la norma di legge può essere derogata dal contratto collettivo che preveda condizioni migliorative.

In alcuni casi, per superare momenti di difficoltà industriali ed occupazionali, leggi speciali hanno consentito alla contrattazione collettiva di scendere al di sotto dei limiti di tutela delineati dalla legge;

b) contratto collettivo e contratto individuale: il contratto individuale può derogare solo in melius quello collettivo; la giurisprudenza afferma tale principio facendo leva sull’art. 2077, 2° comma c.c. che prevede la sostituzione delle clausole dei contratti individuali con quelle dei contratti collettivi, a meno che non contengano condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro;

c) contratti collettivi di diverso livello: il problema si pone principalmente per quanto concerne i rapporti tra contratti collettivi e contratti aziendali.

La giurisprudenza è concorde nel sostenere che i contratti aziendali, aventi natura ed efficacia di contratti collettivi, possono derogare, anche in peius per i lavoratori, ai contratti collettivi nazionali, non essendo applicabile il principio di cui all’art. 2077 c.c. che si riferisce ai soli rapporti tra contratto collettivo ed individuale di lavoro.

Infatti i contratti aziendali, non consistendo nella somma di più contratti individuali, bensì in atti generali, possono avere efficacia modificativa di precedenti accordi collettivi dello stesso o diverso livello e determinare, pertanto, nuovi trattamenti dei dipendenti dell’azienda, vincolando questi ultimi all’osservanza della normativa con essi introdotta;

d) contratti collettivi ed usi aziendali, intendendosi per tali quei comportamenti tenuti dal datore di lavoro «con apprezzabile continuità o reiterazione nei riguardi dell’intero personale o di settori più o meno ampi dello stesso». Si ritiene che gli usi aziendali possono essere assimilati agli usi contrattuali con la conseguenza che possono modificare solo in melius il contratto collettivo, alla stregua di un qualunque accordo individuale.

Successione di contratti collettivi e diritti quesiti

Il caso in esame richiede anche un breve cenno alla tematica dei diritti quesiti, i diritti cioè che già fanno parte del patrimonio di un soggetto, ed alla possibilità che contratti collettivi o leggi successive incidano sugli stessi. In via preliminare è possibile osservare che, in presenza di un sistema di contrattazione collettiva di stampo privatistico, il principio dei diritti quesiti è di regola riferibile ai solo caso di successione di norme di legge, ma non a quello della successione di contratti collettivi di diritto comune, che è invece retta dal principio della libera volontà delle parti.

Tuttavia un successivo contratto collettivo non può incidere su diritti sorti, a favore delle parti del rapporto di lavoro, in virtù di un precedente contratto collettivo quando tali diritti sono sorti per effetto di prestazioni già eseguite alla stregua della disciplina all’epoca vigente, e correlate all’attività lavorativa svolta (e in tal senso Cass. 2031996, n. 2361 e Cass. 2371994, n. 6845).

In questo caso, infatti, il successivo contratto collettivo verrebbe non a regolare diversamente per il futuro un determinato rapporto, ma inciderebbe su diritti nati da prestazioni già svolte ed ormai entrate a far parte del patrimonio di un soggetto.

L’efficacia soggettiva dei contratti collettivi

Il contratto collettivo vincola non solo le associazioni stipulanti, ma gli stessi associati, datori e lavoratori. Tale vincolatività si spiega con il potere di rappresentanza conferito dagli associati all’associazione all’atto dell’adesione per cui, al momento della stipula, l’associazione agisce non più in quanto tale, ma in sostituzione di coloro che rappresentano (cd. teoria della rappresentanza, fanno notare come nelle ipotesi di rappresentanza e di mandato i rappresentanti ed i mandanti possono di comune accordo modificare il regolamento d’interesse stabilito, mentre nel caso di contratto collettivo di diritto comune, la deroga può essere solo in melius).

Poiché il contratto collettivo attualmente praticato è di diritto comune, in base ai criteri civilistici esso vincola i soli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti.

Laddove una delle parti non sia iscritta all’associazione stipulante, il contratto collettivo può comunque trovare applicazione in via di fatto quando vi sia stata, da parte dei soggetti del rapporto individuale, una adesione dei contratti collettivi ovvero una implicita ricezione di essi nei contratti individuali, desumibili da una pratica costante, consolidatasi attraverso l’uniforme e prolungata applicazione dei contratti (Cass. Sez. Un. 2631997, n. 2665).

Tuttavia laddove non vi sia stata nemmeno l’applicabilità di fatto del contratto, ed il datore di lavoro non sia iscritto ad un’organizzazione stipulante, si pone il problema di verificare se sia possibile un’estensione del contratto collettivo.

Ebbene, la giurisprudenza ha operato siffatta estensione in applicazione del principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost. Infatti, partendo dal presupposto che il principio individuato dal primo comma dell’art. 36 Cost. abbia carattere precettivo, si è sostenuto che il giudice, ai fini della determinazione dell’equa retribuzione, ai sensi degli art. 2099 c.c. ed art. 36 Cost., debba tener conto delle clausole salariali contenute nei contratti collettivi (Cass. 15121979, n. 6526; Cass. 841980, n. 2254).

In pratica laddove le parti non abbiano pattuito la retribuzione, o l’abbiano pattuita in maniera insufficiente, il giudice sostituisce la retribuzione inferiore o mancante con quella prevista dai contratti collettivi, ritenendo che tale retribuzione costituisce il minimo inderogabile di cui all’art. 36 Cost.

L’effetto più rilevante di tale interpretazione giurisprudenziale è stato quello di consentire a lavoratori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni sindacali (e quindi non tenute a rispettare i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi) di invocare l’applicazione delle tariffe salariali sindacali.

Come ha notato la dottrina, in tal modo la giurisprudenza ha realizzato una forma parziale ed indiretta di estensione erga omnes degli effetti del contratto, risolvendosi così il problema del riconoscimento dell’efficacia generale ai contratti collettivi stessi, almeno limitatamente alla loro parte economica (cd. estensione ultra partes dei contratti collettivi).

Sulla successione di contratti collettivi di diverso livello:

La disposizione dell’art. 2077, secondo comma, cod. civ. (la quale stabilisce la prevalenza delle clausole del contratto collettivo su quelle dei contratti individuali preesistenti o successivi, salvo che esse siano più favorevoli ai lavoratori) concerne i rapporti fra contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, e contratto individuale e, pertanto, non è applicabile in tema di rapporti fra contratti collettivi nazionali e contratti collettivi aziendali (Cass. 2521988, n. 2021).

I contratti collettivi aziendali hanno natura ed efficacia di contratti collettivi, sicché, non applicandosi ad essi la disciplina dell’art. 2077 cod. civ., che regola soltanto i rapporti fra contratto collettivo e contratto individuale, la nuova disciplina contenuta in un contratto collettivo aziendale può modificare in senso peggiorativo quella precedente contenuta in un contratto nazionale (Cass. 1962001, n. 8296; v. anche Cass. 771987, n. 5933; Cass. 2271987, n. 6370; Cass. 9121988, n. 6695).

All’uso aziendale (cosiddetto negoziale o non normativo) — che trova la sua origine in un comportamento dell’imprenditore il quale spontaneamente e per liberalità (e non perché si ritenga a ciò obbligato) attribuisca a tutti i suoi dipendenti (o a una più ristretta cerchia degli stessi, per esempio a coloro che abbiano una determinata qualifica), eventualmente in riferimento ad un’unica, specifica, vicenda dei rapporti di lavoro, ma ripetutamente per un certo periodo di tempo, un trattamento non previsto nè dal contratto individuale nè dal contratto collettivo — non è applicabile la disciplina della conclusione del contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 cod. civ.), e neanche quella dell’inserimento nel contratto delle clausole d’uso (art. 1340 cod. civ.), inidonee a spiegarne i requisiti costitutivi e il modo d’operare, in quanto l’uso aziendale in realtà fa sorgere un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e collettive in vigore quelle più favorevoli dell’uso stesso (cfr. art. 2077 cod. civ.) (Cass. 6111996, n. 9690).

Poiché la successione dei contratti collettivi di diritto comune è retta dal principio della libera volontà delle parti, non può escludersi che un contratto nazionale disponga in senso peggiorativo rispetto ai trattamenti assicurati ai lavoratori da un precedente contratto aziendale, ancorché debba procedersi ad una valutazione unitaria degli accordi succedutisi nel tempo, salvo che le più favorevoli clausole di quest’ultimo debbono essere fatte salve ai sensi dell’art. 2077, secondo comma c.c., in considerazione di un loro carattere «individuale», determinato dal fatto che esse, sebbene cumulativamente formulate, siano giustificate dal l’intuitus personae, e cioè dalla particolare e specifica posizione dei singoli lavoratori interessati, oltre che pattuite con l’osservanza dell’art. 16 della legge 20 maggio 1970, n. 300. (…) (Cass. 20891, n. 8954)..

Il fenomeno della successione dei contratti collettivi nel tempo non è assimilabile a quello della successione tra norme giuridiche, per cui il contratto collettivo posteriore non modifica l’assetto precedente, ma sostituisce una nuova regolamentazione a quella divenuta inefficace per scadenza del termine o per volontà degli stessi stipulanti.

Ne consegue che, per i rapporti di lavoro cessati nel vigore di una determinata fonte collettiva, i diritti attribuiti dal contratto (ancorché si concretino in una rendita erogata periodicamente mediante ratei) non possono essere influenzati dalla stipulazione dei successivi contratti (il cui oggetto è limitato ai rapporti di lavoro in atto) salvo che i lavoratori cessati dal servizio non abbiano conferito specifico mandato alle organizzazioni sindacali stipulanti, o ratificato la relativa attività negoziale, oppure abbiano prestato acquiescenza alle nuove normative.

Nè può configurarsi un’adesione del lavoratore al nuovo contratto stipulato dopo la sua cessazione dal servizio nel fatto che questi abbia riscosso per lungo tempo, e senza contestazioni, la rendita erogatagli sulla base delle modifiche peggiorative intervenute, atteso che non è possibile attribuire contenuto negoziale di rinunzia ad un comportamento consistente nell’accettazione di un adempimento parziale, la quale rappresenta una facoltà del creditore (art. 1181 cod. civ.), salvo che non sia accompagnato da altri elementi che univocamente dimostrino la volontà di dismissione del diritto (Cass. 2031996, n. 2361).

Nell’ipotesi di successione di contratti collettivi di diverso livello (nazionale, provinciale, aziendale) l’eventuale contrasto tra le relative previsioni non va risolto secondo i principi di gerarchia e di specialità, propri delle fonti legislative, ma in base all’individuazione della effettiva volontà delle parti desumibile dal coordinamento delle varie disposizioni, di pari dignità, della contrattazione nazionale e locale, fermo restando che un nuovo contratto collettivo (sia esso nazionale o aziendale) può anche modificare in pejus la disciplina collettiva precedente (di qualsiasi livello essa sia), con il solo limite del rispetto dell’esistenza di veri e propri diritti (e non di mere aspettative) definitivamente acquisiti dai lavoratori alla stregua della normativa poi superata da quella peggiorativa (Cass. 6102000, n. 13300).

(…) Tra contratti collettivi di diverso livello, sottoscritti da articolazioni delle medesime organizzazioni sindacali e datoriali esistendo una naturale forma di sovra ordinazione delle organizzazioni nazionali su quelle locali si pone comunque una esigenza di raccordo e di coesione dei diversi livelli di contrattazione sindacale, che formano nell’insieme l’ordinamento sindacale. Pertanto un contratto interattivo aziendale non può travalicare la delega conferitagli dal contratto collettivo nazionale per la disciplina di dettaglio di istituto stabilito nei suoi caratteri essenziali dal nazionale (Cass. 1711 2003 n. 17377). Sulla tematica dei diritti quesiti in caso di successione dei contratti collettivi:

Il recesso unilaterale del datore di lavoro da un accordo collettivo aziendale istitutivo di un fondo di previdenza integrativa privo del termine finale è ammissibile, secondo i principi generali che regolano l’estinzione dei rapporti di durata a tempo indeterminato. Esso, tuttavia, non solo trova un ostacolo insuperabile (salvo specifico assenso degli interessati) nei diritti «quesiti» dei lavoratori — al pari delle modifiche in pejus delle condizioni contrattuali di trattamento precedentemente in vigore — ma deve altresì rispettare la garanzia normativa di cui all’art. 2117 cod. civ. Ne consegue che il recesso in oggetto non soltanto non può influire nè sulla posizione di coloro che, avendo maturato i requisiti ed esercitato il diritto, hanno ormai conseguito il previsto trattamento pensionistico aziendale nè sulla posizione di coloro che hanno maturato i requisiti per un trattamento pensionistico ma non hanno ancora esercitato il relativo diritto previo il proprio collocamento a riposo (posizioni entrambi riconducibili alla nozione di diritti «quesiti»), ma non può avere effetto neppure sulla posizione di coloro che, pur non avendo maturato i requisiti per il trattamento aziendale, sono parte della fattispecie a formazione progressiva, costitutiva di capitale in via di accumulo, vincolato a beneficio di tutti gli iscritti al fondo, ai sensi del citato art. 2117 (Cass. 171998, n. 6427).


In base al principio secondo cui i rapporti tra contratti collettivi nella loro successione temporale non sono regolati dall’art. 2077 cod. civ. (che riguarda solo i rapporti tra contratti collettivi e contratti individuali), ma dalla libera volontà delle parti stipulanti, un contratto collettivo può incidere sia sull’entità delle prestazioni previdenziali integrative, sia sulla misura del contributo dovuto e modificarli in senso più sfavorevole al lavoratore diminuendo l’entità della prestazione o aumentando la misura del contributo dovuto.

L’unico limite è costituito dalla salvezza dei diritti del lavoratore già acquisiti. Tale limite non può dirsi superato dalla semplice diminuzione delle prestazioni o dall’aumento delle contribuzioni in quanto tali misure vengono ad incidere da un lato su situazioni previdenziali non ancora acquisite e dall’altro su retribuzioni non ancora dovute (Cass. 23499, n. 4069).

Il principio per cui alla contrattazione collettiva non è consentito incidere, in relazione alla regola dell’intangibilità dei diritti quesiti, su posizioni già consolidate o su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico mandato od una successiva ratifica da parte degli stessi, non si applica alla distinta ipotesi in cui il contratto collettivo venga ad incidere su posizioni non ancora qualificabili come di diritto soggettivo e venga a regolare le condizioni di acquisto di diritti futuri (ad esempio: salario non maturato, contingenza non ancora scattata), venendosi in questo caso a porre solo un problema di rapporti tra contratti di diverso o pari livello (Cass. 2371994, n. 6845).

Nel caso in cui ad una disciplina collettiva ne succeda un’altra di analoga natura si realizza l’immediata sostituzione delle nuove clausole a quelle precedenti, ancorché la nuova disciplina sia meno favorevole ai lavoratori. Il divieto di deroga in pejus posto dall’art. 2077 cod. civ. riguarda, infatti, esclusivamente il contratto individuale in relazione a quello collettivo.

Peraltro, con riguardo ai rapporti fra questi due contratti, va considerato che le disposizioni del contratto collettivo non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo dei sindacati, ma operano invece dall’esterno sui singoli rapporti di lavoro come fonte individuale, sicché nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole per il lavoratore. Ne consegue che nel caso di assenze per malattia verificatesi a cavallo di due successivi contratti collettivi l’equitativa fissazione del cosiddetto «termine esterno» del periodo di comporto, con riferimento alla durata del contratto collettivo, non costituisce ostacolo a calcolare il comporto con riferimento alle assenze complessive del lavoratore, ancorché iniziate prima dell’entrata in vigore del secondo contratto (Cass. 181298, n. 12716).

Ferma l’indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da un determinato contratto collettivo, il lavoratore non può, peraltro, pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva; infatti, le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell’ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (ex art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale, restando la conservazione di quel trattamento affidata all’autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia (Cass. 281192, n. 12751; conf. Cass. 20891, n. 8946).

Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano dall’esterno come fonte eterogenea di regolamento del rapporto, concorrente con la fonte individuale. Consegue che nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, restando la conservazione di quel trattamento affidata all’autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, le quali possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia (Cass. 522000, n. 1298). Sull’estensione soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune:

Il primo comma dell’art. 2070 cod. civ. (secondo cui l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione.

Pertanto, nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dell’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (Cass. Sez. Un., 2631997, n. 2665).

Il giudice del merito, ove ritenga che una regolamentazione collettiva di rapporti di lavoro sia ispirata al principio di cui all’art. 36 Cost., può avvalersi di essa per determinare i diritti e gli obblighi anche dei soggetti non appartenenti alle associazioni stipulanti poiché tale regolamentazione, anche se non direttamente applicabile, può tuttavia essere utilizzata come parametro per determinare la giusta retribuzione (Cass. 841980, n. 2254).

Ai fini della determinazione della giusta retribuzione, ex art. 36 Costituzione, nei casi di mancata adesione delle parti alla contrattazione collettiva, il giudice che adotti come parametro orientativo le tariffe minime ivi indicate può anche procedere alla riduzione delle stesse in ragione delle modeste dimensioni dell’impresa, la proporzionalità della retribuzione alla qualità del lavoro svolto non comportando necessariamente la corrispondenza della prestazione lavorativa di un certo contenuto ad una immutabile quantità di denaro e ben potendo darsi che la prestazione venga apprezzata diversamente in relazione alle esigenze ed alle capacità economiche del datore di lavoro che la utilizza (Cass. 15112001, n. 14211).

L’adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 della Costituzione postula l’accertamento che la retribuzione di fatto percepita dal lavoratore manchi dei requisiti della proporzionalità e della sufficienza; il che non può essere ritenuto in base alla sola considerazione che la contrattazione collettiva applicabile ad altri lavoratori della stessa categoria preveda per questi un migliore trattamento, atteso che l’utilizzazione come parametro del trattamento previsto da un contratto collettivo deve essere necessariamente preceduta dall’accertamento dell’insussistenza dei requisiti predetti (Cass. 13290, n. 1042).

Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed una organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.

Il nostro ordinamento ha conosciuto varie tipologie di contratti collettivi (contratti corporativi, contratti previsti dall’art. 39 Cost., etc. …), ma l’unico tipo di contratto che attualmente viene stipulato è il contratto collettivo di diritto comune, così denominato in quanto regolato dalle norme del diritto civile in materia contrattuale.

Un successivo contratto collettivo, anche di grado superiore, non può incidere sui diritti quesiti, i diritti cioè che già fanno parte del patrimonio di un soggetto.

Il contratto collettivo di diritto comune vincola solo le associazioni stipulanti e gli iscritti alle predette associazioni.

Tuttavia la giurisprudenza ha esteso l’applicazione del predetto contratto anche ai

lavoratori non iscritti facendo leva sul principio della sufficiente retribuzione di cui all’art. 36 Cost. e sostenendo che i minimi fissati in contratto collettivo rappresentano la retribuzione inderogabile di cui all’art. 36 Cost.

La questione di specie richiede un approfondimento dei rapporti tra contratto collettivo nazionale e contratto integrativo aziendale. Infatti il contratto collettivo nazionale aveva introdotto un premio di produttività rimettendo alla contrattazione integrativa aziendale la concreta determinazione del contenuto economico del premio.

Tuttavia il contratto aziendale aveva limitato la sua portata ai lavoratori in servizio al momento della sua entrata in vigore, pregiudicando così coloro, come il dipendente della banca, che erano cessati dal servizio medio tempore.

Occorre quindi verificare se il contratto aziendale potesse regolare la materia in maniera difforme dal contratto collettivo ed eventualmente prevedere un trattamento peggiorativo per il lavoratore. In via di principio può osservarsi che i contratti aziendali sono veri e propri contratti collettivi e possono quindi avere efficacia modificativa di precedenti accordi collettivi dello stesso o diverso livello e determinare, pertanto, nuovi trattamenti dei dipendenti dell’azienda, vincolando questi ultimi all’osservanza della normativa con essi introdotta (Cass. 771987, n. 5933; Cass. 2271987, n. 6370; Cass. 9121988, n. 6695; Cass. 1962001, n. 8296).

Né in senso contrario potrebbe farsi leva sul disposto di cui all’art. 2077 c.c. che prevede la sostituzione delle clausole dei contratti individuali con quelle dei contratti collettivi, laddove le prime siano meno favorevoli per il prestatore di lavoro.

La norma si riferisce infatti ai soli rapporti tra contratti individuali e collettivi e non può regolare anche il diverso caso di concorso tra contratti collettivi, nazionali ed aziendali.

Tuttavia si è di recente affermato che «tra contratti collettivi di diverso livello, sottoscritti da articolazioni delle medesime organizzazioni sindacali e datoriali, esiste una naturale forma di sovra ordinazione delle organizzazioni nazionali su quelle locali».

Si tratta di un principio che muove dalla necessità di un raccordo dei diversi livelli di contrattazione sindacale volto « non a vanificare l’autonomia e l’indispensabile diversità di articolazione delle politiche aziendali, ma a fissarne un momento unitario per il perseguimento di finalità generali destinate invece a valorizzare detta autonomia».

Di conseguenza il contratto integrativo aziendale non può violare la delega riconosciutagli da quello nazionale, restringendone indebitamente la portata.

Nel caso di specie quello nazionale aveva lasciato al contratto aziendale solo il compito di determinare i criteri cui commisurare la corresponsione del premio di produttività e nel momento in cui il contratto integrativo aziendale aveva limitato la sua applicazione ai dipendenti in servizio alla sua entrata in vigore, aveva finito col ledere diritti già acquisiti dai lavoratori in base alla contrattazione nazionale per una prestazione già svolta.

Non è quindi una questione di impossibilità di deroga in peius del contratto collettivo, ma di lesione di diritti che erano già entrati nella sfera giuridica dei dipendenti e che quindi erano intangibili (cd. diritti quesiti). Infatti il potere dispositivo del sindacato contraente trova un limite nella «intangibilità delle situazioni giuridiche soggettive perfette, maturate in capo al lavoratore a fronte di una prestazione lavorativa già resa» (Cass. 1631990, n. 2155; Cass. 571990, n. 7050).

Pertanto l’autonomia collettiva può anche modificare un trattamento collettivo stabilito in precedenza, ma trova un rigoroso limite nelle situazioni giuridiche consolidatesi: essa non può incidere su diritti sorti, a favore delle parti del rapporto di lavoro, in virtù di un precedente contratto collettivo, «per l’avvenuto perfezionamento delle fattispecie costitutive ad essi corrispondenti o per effetto di prestazioni già eseguite» (Cass. 11111988, n. 6116).

Nella specie deve ritenersi che il dipendente avesse già pienamente maturato il diritto al conseguimento del premio di produttività,

in quanto i beneficiari erano già stati individuati dal contratto nazionale come tutti coloro che erano in servizio al momento della stipula del contratto, tra i quali rientrava lo stesso dipendente della banca.

Il successivo accordo aziendale doveva solo individuare criteri di corresponsione del premio e non poteva escludere i lavora-tori che nel frattempo erano cessati dal servizio.

Il dipendente della banca ha quindi pienamente diritto al premio di produttività ed a conclusioni diverse si potrebbe addivenire solo laddove al con-tratto aziendale fosse stata demandata anche la regolamentazione dei requisiti per conseguire il predetto premio, mentre nella specie esso doveva solo determinare il contenuto economico di un premio già interamente disciplinato dal contratto nazionale.


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