MOBBING NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – COME DIFENDERSI
Tizio, dipendente di una pubblica amministrazione, è stato progressivamente emarginato e fatto oggetto di pratiche vessatorie; in particolare, poi, il suo studio è stato confinato in una stanzetta angusta senza telefono e gli è stato sospeso finanche il permesso di parcheggio nel cortile del suo ufficio. Tizio, stanco di questi comportamenti, si reca dall’avvocato Proculo per un parere sulla legittimità del comportamento da parte del suo datore di lavoro.
La violenza sul posto di lavoro, l’aggressione sistematica posta in essere dal datore di lavoro o da un suo preposto o superiore gerarchico, oppure anche da colleghi o compagni di lavoro, con chiari intenti discriminatori e persecutori protesi ad emarginare un determinato lavoratore nell’ambiente di lavoro e ad indurlo alle dimissioni, per ragioni di concorrenza, gelosia, invidia o di altro comportamento o sentimento socialmente deprecabile, si può definire mobbing.
Il vocabolo deriva dal verbo inglese «to mob» che significa «assalto di gentaglia» quasi a rappresentare l’aggressione nei confronti di un soggetto isolato, spesso bravo ed ambizioso. L’intento ed il risultato finale delle iniziative persecutorie da mobbing è quello di indurre la vittima a lasciare l’azienda, tramite un normale atto di dimissioni o con un pensionamento anticipato in ragione dell’insostenibilità psicologica della situazione stressante.
Alcuni autori hanno definito il mobbing sul lavoro una lo forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica, non occasionale o episodica, da una o più persone nei confronti di un solo individuo il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie.
Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza e nell’arco di un lungo periodo di tempo. A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali.
Tra le situazioni pregiudizievoli da mobbing rientrano sicuramente il demansionamento o la dequalificazione professionale riconducibili alla violazione dell’art. 2103 c.c. come lesione della professionalità, della dignità e della personalità morale del lavoratore e quale deminutio nel prestigio e nel rapporto con gli altri (danno all’immagine). Una volta qualificato come danno esistenziale quello che può risultare da una condotta «mobbizante» vediamo di precisarne i contorni con riferimento al profilo della definizione della natura del risarcimento richiesto. Posto che all’origine della responsabilità del datore di lavoro si può cercare la strada della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. o quella del danno aquiliano ex art. 2043 c.c. l’orientamento prevalente della giurisprudenza della corte di Cassazione ha chiarito che il contenuto dell’obbligo ex art. 2087 c.c. «non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica di prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore».
Secondo la Corte suprema, dunque, la fattispecie di responsabilità va quindi ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti, dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quali il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio.
Spetterà, quindi, al datore di lavoro dimostrare di aver posto essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, mentre spetta al lavoratore dimostrare resistenza del nesso causale tra l’evento lesivo ed il comportamento del datore di lavoro.
In pratica
In ordine alla soluzione del quesito proposto, risultano particolarmente interessanti le seguenti sentenze: Nel danno sopportato dal lavoratore in conseguenza della mancata osservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza impostigli dall’art. 2087 c.c., rientra anche 11 danno morale quante volte da quell’inosservanza siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta del datore anche un rilievo penale che giustifica l’attribuzione del risarcimento ex art. 2059 c.c. (Cass. 2041998, n. 4012).
La responsabilità del datore di lavoro — che è tenuto alla predisposizione e all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore — ha natura contrattuale, con la conseguenza che, al fine della risarcibilità del danno biologico inteso come danno all’integrità psicofisica della persona in sé considerata (danno che può consistere in un eccessivo carico di lavoro estrinsecantesi nell’accettazione di lavoro straordinario continuativo o nella rinuncia a periodi di ferie), grava sul lavoratore l’onere di provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di adottare le suddette misure di protezione.
Una volta assolto tale onere, non occorre invece che il lavoratore dimostri anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente, gravando su quest’ultimo il diverso onere di provare che l’evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile. Inoltre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psicofisica sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa (Cass. 522000, n. 1307).
Allorquando venga dal lavoratore denunziata la violazione dell’art. 2103 c.c. allegando di aver sofferto una dequalificazione professionale, il giudice deve stabilire se le mansioni dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale — per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri ciel lavoratore e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità (Cass. 482000, n. 10284).
Il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti, non solo viola lo specifico divieto dì cui all’art. 2103 c.c., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione — che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato — va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 6112000, n. 14443).
Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c. ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto dall’art. 1226 c.c. (Nel caso di specie, la sentenza impugnata — cassata dalla S.C. — aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull’assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile) (Cass. 18101999, n. 11727).
In tema di azione promossa da un dipendente nei confronti del suo datore di lavoro pubblico per il risarcimento del danno all’integrità psicofisica derivante da condotte antigiuridiche configuranti la fattispecie del mobbing, il riparto di giurisdizione è strettamente subordinato all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se trattasi di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre se trattasi di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario (Cass. 452004, n. 8438).
Punto sulla questione Il termine Mobbing può essere riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro. La responsabilità del datore di lavoro è riconducibile alla responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Il risarcimento del danno da mobbing deve essere liquidato in via equitativa cori riferimento al concetto di danno esistenziale qualora non abbia dato luogo ad una vera e propria invalidità psicofisica.
PARERE MOTIVATO
La pretesa che Tizio può far valere davanti al Tribunale ha senz’altro fondamento. Il suo confinamento in una stanzetta, la mancanza di un telefono, il mancato permesso per parcheggiare la propria autovettura, infatti, concretizzano tutte ipotesi di pratiche vessatorie poste in essere dal datore di lavoro in modo sistematico per danneggiare Tizio nel suo ambiente di lavoro.
Sulla base della prevalente dottrina e giurisprudenza, si potrà far riferimento all’art. 2087 c.c. riconducendo la responsabilità del datore di lavoro alla responsabilità contrattuale; la fattispecie di responsabilità, infatti, va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il risarcimento, che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio.
Spetterà, dunque, al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del dipendente, mentre spetterà al lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo ed il comportamento del datore di lavoro.
Un ultimo accenno va fatto alla competenza: in tema di azione promossa da un dipendente nei confronti del suo datore di lavoro pubblico per il risarcimento del danno all’integrità psicofisica derivante da condotte antigiuridiche configuranti la fattispecie del mobbing il riparto di giurisdizione è strettamente collegato all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto se si tratta di azione contrattuale la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, i Iella fattispecie dovrà esperirsi un’azione di responsabilità contrattuale e, quindi, la domanda andrà proposta innanzi al tribunale amministrativo.
Infatti, intendendo per mobbing, come abbiamo già precisato, ogni ipotesi di pratiche vessatorie poste in essere da uno o più soggetti per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, i fatti dedotti a sostegno della domanda rappresentano l’esercizio di tipici poteri datoriali in violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, sanciti dagli articoli 2087 e 2103 c.c.