INADEMPIMENTO COME RITARDO NELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO
Siamo stati contattati da una Società finanziaria per la seguente consulenza giuridica: la società finanziaria nella convinzione di finanziare un acquisto di autoveicolo emetteva alla società X, con cui aveva stipulato una convenzione, un assegno di venticinquemila euro. Per l’appunto il contratto-convenzione con la società X era stato formulato per interventi finalizzati all’acquisto di autoveicoli.
Successivamente, trascorsi due anni, la società finanziaria, si rende conto dell’inadempimento della società per lo sfruttamento del finanziamento (utilizzazione del finanziamento per finalità diverse da quelle previste nella convenzione) e pertanto prima di recarsi dal proprio legale di fiducia ci chiede:<< E’ possibile chiedere la condanna alla restituzione della somma mutuata a un Signore dalla società intermediaria, considerato che abbiamo scoperto che il signore stesso era già proprietario dell’autovettura in questione?
IL NOSTRO PARERE GIURIDICO
Va innanzitutto rilevato che in alcuni ordinamenti (ma non in quello Italiano), tende ad affermarsi il principio, basato appunto sulla buona fede, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione rappresenti un caso di abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente rifiuto della tutela, per il principio della buona fede nell’esecuzione del contratto.
Questa è la cosiddetta teoria della Venvirkung che esprime un concetto di abuso del diritto rilevabile d’ufficio dal giudice ove risultasse dalle allegazioni processuali, e non sarebbe necessaria l’exceptio di parte, come prevede l’art. 2938 c.c. in tema di prescrizione.
Nel nostro ordinamento, però, non può darsi ingresso a questo principio. Infatti, è vero che anche nel nostro ordinamento vige il principio del comportamento secondo correttezza e buona fede ma la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.) quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostante all’esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.), specificandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così sotto il profilo dell’integrazione il contenuto e gli effetti del contratto.
Quindi, nell’esecuzione del contratto secondo buona fede, la parte è tenuta da un lato ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro a tollerare anche inadempimenti della controparte, che non pregiudichino sensibilmente il proprio interesse.
Ne consegue che il semplice fatto del ritardo nell’esercizio di un proprio diritto, se non produce un danno per la controparte ma un apprezzabile interesse per il titolare nei limiti e secondo le finalità del contratto, non dà luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e non è causa per escludere la tutela dello stesso diritto, qualunque convinzione possa essersi fatta per effetto del ritardo la controparte. Diversa questione è la possibilità che detto ritardo sia la conseguenza di una rinuncia tacita all’esercizio del diritto. Sennonché la rinuncia ad un diritto, se non espressa, si può desumere soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli, in maniera univoca, la sua definitiva volontà di non avvalersi del diritto stesso. Il ritardo nell’esercizio del diritto neppure può avere rilevanza di per sé solo, sotto il profilo della disciplina contrattuale. La tolleranza del creditore non può giustificarne l’inadempimento né comportare per sé stessa modificazioni alla disciplina contrattuale.
Ciò che conta, anche in questo caso, è che vi sia manifestazione di volontà del creditore per quanto in forma tacita, cioè desumibile da un comportamento incompatibile con il mantenimento di una determinata disciplina contrattuale che prevedeva il diritto. In conclusione, si può affermare che il solo ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare del diritto stesso e per quanto tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca rinuncia tacita o modifica della disciplina contrattuale.
Sull’argomento sono da segnalare le massime che seguono:
- La tolleranza del creditore non può giustificare l’inadempimento, né comportare per se stessa modificazioni alla disciplina contrattuale, non potendosi presumere una completa acquiescenza alla violazione di un obbligo contrattuale posto in essere dall’altro contraente, né un consenso alla modificazione suddetta da un comportamento equivoco come è normalmente quello di non avere preteso in passato l’osservanza dell’obbligo stesso, in quanto tale comportamento può essere ispirato da benevolenza piuttosto che essere determinato dalla volontà di modificazione del patto (Cass. 2011994, n. 466).
- La rinuncia ad un diritto, se non espressa, si può desumere soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli, in maniera univoca, la sua definitiva volontà di non avvalersi del diritto stesso; l’inerzia o il ritardo nell’esercizio di un diritto, non possono, quindi, di per sé soli, reputarsi sufficienti a dedurre una siffatta volontà abdicativa, potendo essere frutto di ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa, ma hanno, invece, rilevanza ai soli fini della prescrizione estintiva (Cass. 2761991, n. 7215).
- Non abusa del diritto di impugnativa il socio (nella specie, di una cooperativa a r.l.) che impugni la delibera assembleare di approvazione del bilancio dopo aver in precedenza approvato il progetto di bilancio in qualità di componente del consiglio di amministrazione, giacché, in mancanza di qualsiasi restrizione all’esercizio del diritto di impugnazione delle delibere difformi dalla legge e/o dall’atto costitutivo, per ipotizzare un abuso del suddetto diritto occorre provare la violazione dei principi di correttezza e buona fede intese come regola di comportamento e, a tali fini, non è sufficiente la semplice identità soggettiva tra chi prima abbia approvato il progetto di bilancio e poi impugnato la delibera di approvazione del bilancio medesimo, atteso che il medesimo soggetto nelle due occasioni ha esercitato funzioni e ruoli distinti (quello di amministratore e quello di socio), onde è ben possibile che abbia espresso due diverse valutazioni, senza che sia per ciò solo configurabile una violazione del divieto di venire contro factum proprium (Cass. 11122000, n. 15592).
- In caso di recesso di una banca dal rapporto di credito a tempo determinato in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti del rapporto contrattuale, il giudice non deve limitarsi riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell’ipotesi tipica di giusta causa ma, ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate (Cass. 1472000, n. 9321).
- Deve ritenersi contrario a buona fede, e quindi inammissibile, siccome illegittimo per abuso del diritto, il comportamento del creditore il quale, potendo chiedere l’adempimento coattivo dell’intera obbligazione, frazioni, senza alcuna ragione evidente, la richiesta di adempimento in tutta una pluralità di giudizi di cognizione davanti a giudici competenti per le singole parti. Né vale ad escludere questo giudizio di sfavore il fatto che nessun vantaggio economico si profili, in tal modo, per il ereditare.
Ciò che, infatti, unicamente rileva, ai fini di una corretta impostazione del problema entro i canoni ermeneutici del principio di buona fede, è l’esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio meritevole di tutela per il creditore (Cass. 23797, n. 6900).
- Poiché nella fase di esecuzione del contratto le parti, al fine dì conservare integre le reciproche ragioni, devono comportarsi con correttezza e secondo buona fede, anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che sia di ostacolo al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercuotendosi negativamente sul risultato finale avuto di mira nel regolamento contrattuale degli opposti interessi, contrasta con i doveri di correttezza e di buona fede e può configurare inadempimento (Cass. 10486, n. 2503).
- La buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia, tra l’altro, in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire
Inadempimento come ritardo nell’esercizio del diritto
in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico. (Nell’affermare il principio di diritto che precede, la S.C. ha così cassato la decisione del giudice di merito che aveva escluso ogni violazione di obblighi, contrattuali e di comportamento secondo buona fede, nella mancata, tempestiva cancellazione ipotecaria da parte del promettente venditore di un immobile che tale cancellazione si era obbligato a compiere, con clausola inserita nel preliminare, «entro il rogito definitivo»: la S.C. ha, difatti, rilevato come il predetto fosse a conoscenza della circostanza che il promissario acquirente, stipulato un contratto di mutuo con un istituto bancario al fine di adempiere alla sua residua obbligazione di versamento del prezzo, aveva condizionato il mutuo stesso, come da prassi, alla possibilità di iscrivere, per la banca, «prima ipoteca, o altra di pari effetti sull’immobile oggetto di compravendita», e come da ciò conseguire l’obbligo di esso promittente venditore, alla stregua del ricordato principio di buona fede nell’esecuzione del contratto — e salvo accertamento, demandato al giudice del rinvio, dell’eventuale, eccessiva gravosità di esso — di procedere tempestivamente alla cancellazione ipotecaria — in epoca, dunque, precedente il rogito — onde consentire la convenuta iscrizione alla banca mutuante) (Cass .432003 n. 3185).
- La corrispondenza al canone di buona fede dell’esercizio del diritto di recesso previsto in un contratto deve essere valutata nel contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, al fine di accertare se il recesso sia stato esercitato secondo modalità e tempi rispondenti ad un interesse del titolare meritevole di tutela piuttosto che al solo scopo di recare danno all’altra parte (Cass. 16102003, n. 15482).
- Il semplice ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso e tale da generare nel debitore un ragionevole affidamento che il diritto non verrà più esercitato, non comporta una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria del diritto, salvo che tale ritardo sia la conseguenza di un’inequivoca rinuncia (Cass. 1532004, n. 5240).
L’istituto elaborato dalla giurisprudenza tedesca e noto con il nome di Verwirkung, si riporta al generale principio di buona fede nella esecuzione del contratto e comporta la perdita del diritto in seguito all’inattività del titolare, protrattasi per un significativo periodo di tempo ed in presenza di circostanze idonee a determinare un ragionevole affidamento della controparte.
Non c’è posto nel nostro ordinamento per la teoria tedesca della Verwirkung, poiché il semplice ritardo nell’esercizio di un proprio diritto non dà luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, salvo che tale ritardo sia la conseguenza di un’inequivoca rinuncia tacita o modifica della disciplina contrattuale.
LA RISPOSTA DEI NOSTRI AVVOCATI – MEDIATORI CIVILI
In aperta violazione della convenzione stipulata con la società finanziaria, la società intermediaria aveva chiesto un finanziamento per un Signore, suo cliente, per l’acquisto di un autoveicolo che in realtà era già di sua proprietà; resasi conto dell’inadempimento, trascorsi due anni, la società finanziaria chiedeva la restituzione della somma mutuata.
Orbene, come esposto nella parte teorica, non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento la teoria tedesca della Verwirkung, ossia il mancato esercizio del diritto per un periodo di tempo sufficientemente lungo da generare un ragionevole affidamento nella controparte.
La Suprema Corte di Cassazione ha ribadito in maniera perentoria che nel nostro ordinamento non può darsi ingresso a questo principio, nemmeno attraverso l’ancora di salvezza rappresentata dalla clausola generale di buona fede.
Ne consegue che il semplice ritardo nell’esercizio del proprio diritto se non produce un danno per la controparte, non dà luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e non è causa per escludere la tutela dello stesso diritto, qualunque convinzione possa essersi fatta la controparte, per effetto del ritardo.
Dunque, la società finanziaria pur avendo dato esecuzione al contratto senza far valere l’inadempimento relativo all’utilizzo del finanziamento per finalità diverse da quelle previste nella convenzione, ben può agire per detto inadempimento nei confronti della società intermediaria di vendita di automobili, nonostante siano trascorsi due anni dal finanziamento.
Pertanto, si consiglia di agire subito perché la domanda della società finanziaria troverà sicuramente accoglimento in sede giudiziale, e il recarsi presso uno studio legale adesso sarà più proficuo e consapevole di prima.