DEBITI DI VALUTA E DI VALORE E OBBLIGAZIONE DI RISARCIMENTO

La società Rossi commissionava all’imprenditore edile Verdi la realizzazione degli impianti elettrici di un complesso residenziale in corso di completamento, pattuendo, tra l’altro, il pagamento di parte dell’opera mediante la cessione di due dei costruendi appartamenti a prezzo prefissato, in conto del quale l’appaltatore versava euro 500,00 per ciascun cespite.

Successivamente la committente società Alfa non dava seguito all’accordo e affidava una parte dei lavori di realizzazione degli impianti ad altra impresa.

Il nostro cliente venutone a conoscenza, prima di recarsi dal proprio avvocato richiede a noi una consulenza legale per chiedere la risoluzione contrattuale.

La distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore parte dalla disamina sul piano funzionale delle possibili utilità che il denaro possa spiegare nel nostro ordinamento. Si suole affermare che esso non è di per sé idoneo a soddisfare bisogni determinati né a produrre altri beni e, pertanto, sfugge all’inquadramento nelle categorie generali dei beni di consumo e dei beni produttivi. Il denaro viene piuttosto in considerazione come bene strumentale ed assolve principalmente a due funzioni:

In una prima accezione, esso viene in rilievo come mezzo di pagamento (mensuratum), così da assolvere alla funzione di principale strumento di intermediazione negli scambi.

Nel suo secondo significato, invece, il denaro viene in rilievo come unità di misura di valori (mensura) e, come tale,funge da strumento per valutare il significato economico di beni e servizi. La innegabile connessione tra le due funzioni assolte dal denaro non esclude che le problematiche, rispettivamente sollevate, siano di natura e portata differenti.

Occorre,infatti, opportunamente distinguere tra glia spetti strettamente inerenti ai debiti pecuniari e quelli che attengono all’utilizzo del denaro per finalità di valutazione, che significa, in altri termini, distinguere fra la materia dei debiti di valuta e dei debiti di valore. La distinzione è priva di riscontro legislativo ma è frutto di una elaborazione giurisprudenziale. L’elemento discretivo fra le due categorie non è l’oggetto della prestazione, che consiste pur sempre nella dazione di una somma di denaro, ma il momento genetico in cui tale oggetto viene determinato.

Sono di valuta le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro ab origine determinata o determinabile, la quale è soggetta,ex art. 1277 c.c., al principio nominalistico. Secondo tale principio le eventuali variazioni del valore della moneta non hanno alcuna incidenza sull’importo oggetto della prestazione, dovendo essere sempre corrisposta la somma originariamente indicata. Nei debiti di valore, invece, la pecuniarietà dell’obbligazione non è originaria, ma rappresenta solo l’equivalente di una diversa obbligazione primaria, per cui l’oggetto della prestazione è ab origine diverso dalla dazione di una somma di denaro, che ne costituisce soltanto la traduzione in termini pecuniari.

Tali obbligazioni, di conseguenza, sono sottratte al principio nominali stico, poiché l’importo dovuto deve necessariamente esprimere il valore effettivo dell’obbligazione primaria sostituita e, pertanto, non può restare insensibile alle oscillazioni del potere di acquisto della moneta. In esse,dunque, la rivalutazione assolve alla diversa funzione di consentire l’esatta quantificazione della prestazione sostituita dovuta.Questa distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta è nata dall’esigenza, di natura sostanziale, di sottrarre determinate tipologie di rapporti obbligatori agli effetti della rigorosa applicazione del principio nominalistico, ogni qual volta questo appaia iniquo in relazione alla causa del credito.

Accanto al principio nominalistico, l’ordinamento giuridicoitaliano accoglie un altro fondamentale principio in materiadi obbligazioni pecuniarie, quello di naturale fecondità del denaro,inbasealquale si riconosce una generale attitudine del denaroa produrre frutti civili sottoforma diinteressi. All’interno della categoria generale degliinteressi, in relazione alla diversa fun zione cui essi possono assolvere,si distingue tra interessi corri spettivi e moratori.

I primi svolgono una funzione remuneratoriae, ex latere creditoris, si atteggiano come compenso per la privazione del godimento di una somma di denaro e, ex latere debito ris, come corrispettivo per la disponibilità di un capitale altrui. Tali interessi, ex art. 1282 c.c., decorrono automaticamente dal momento in cui il credito è divenuto liquido ed esigibile, senza che sia necessaria alcuna indagine sulla colpevolezza del ritardo e senza che occorra, da parte del creditore, alcun atto di messa in mora.

Diversamente accade,invece, per gli interessi moratori, nei quali, stante la loro funzione risarcitoria, colpa e mora debendi sono entrambe necessarie per la loro decorrenza. Gli interessi moratori costituiscono la liquidazione forfetaria minima del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie. 

A titolo di risarcimento del danno, tali interessi sono dovuti senza bisogno che il creditore dimostri di aver sofferto un danno.

Trattasi di una presunzione iuris tantum circa il quantum del danno patito, suscettibile di essere vinta dal creditore pecuniario attraverso la prova del maggior danno. Premesso che il maggior danno consiste, il più delle volte, nel deprezzamento che il denaro subisce nel lasso di tempo intercorrente tra la mora ed il pagamento tardivo, ci si è chiesti se interessi moratorie rivalutazione monetaria costituiscano distinte voci del danno da ritardo fra loro cumulabili. 

Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 1121989, n. 5299) che hanno affermato l’inammissibilità del cumulo, in quanto rivalutazione e interessi nel l’art. 1224 c.c. assolvono la medesima funzione risarcitoria; gli interessi moratori in via presuntiva, la rivalutazione sub specie di maggior danno. 

Per quanto concerne i debiti di valore, invece, la giurisprudenza prevalente ha ammesso la piena cumulabilità di interessi e rivalutazione monetaria. Secondo tale impostazione,  infatti, gli interessi andrebbero corrisposti a titolo di lucro cessante, in quanto diretti a risarcire il mancato guadagno che sarebbe derivato al danneggiato dal tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene leso; la rivalutazione, invece, andrebbe imputata alla componente del danno emergente,che consiste nella perdita secca subita dal danneggiato e corrisponde al valore attualizzato del bene perduto. 

Partendo da siffatte premesse, la giurisprudenza, fino alla metà degli anni ‘90, ha costantemente utilizzato un metodo di liquidazione del danno fondato su una triplice operazione: alla previa stima della diminuzione patrimoniale, effettuata con riguardo al valore del danno al momento della commissione dell’illecito (ae stimatio), seguiva il successivo aggiornamento in termini monetari attuali del valore stimato (taxatio) e, infine, sulla somma rivalutata si computavano gli interessi, con decorrenza dalla data dell’ evento produttivo del danno.  Questa soluzione, costantemente adottata dalla giurisprudenza, è da più parti (PARDOLESI, QUADRI) tacciata di arbitrarietà, in quanto si ritiene che il riconoscimento degli interessi sulle somme rivalutate rischia di condurre al risultato iniquo di arricchire il creditore danneggiato, il quale otterrebbe una ingiustificata locupletazione, definita da alcuni overcompensation.

Nel 1994 la giurisprudenza (Cass. civ. 29994,n. 7943) ribalta il precedente orientamento ed esclude peri debiti di valore ogni possibilità di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria.

L’innovativa pronuncia,  sebbene apprezzabile per aver preso atto del fatto che il cumulo portava ad un’inaccettabile over compensation, finiva, tuttavia, per conseguire il risultato opposto di invertire lo squilibrio.

Ed infatti, il creditore dell’obbligazione risarcitoria (tipico debito di valore) che, grazie al cumulo fra i due rimedi, godeva in passato di un trattamento di favore rispetto al creditore pecunaiario, volendosi adesso riconoscere la sola rivalutazione monetaria conseguiva un trattamento che si rivelava, all’opposto, deteriore. 

Al fine di dirimere il conflitto giurisprudenziale la Corte di Cassazione ha assunto una posizione intermedia ribadendo la validità del regime di cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria, dall’altro, al fine di evitare ingiuste duplicazioni risarcitorie, nega che il calcolo degli interessi possa essere effettuato, come in passato, sulle somme rivalutate al momento della liquidazione, poiché il mancato godimento dell’utilità che il creditore avrebbe potuto trarre, se il bene fosse stato rimpiazzato immediatamente con la somma di denaro equivalente, va rapportato proprio al momento in cui quel controvalore avrebbe dovuto essere corrisposto, quello cioè in cui è verificato l’illecito, e non al momento successivo della sua liquidazione.

La giurisprudenza ha escluso per i debiti di valuta la possibilità di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria laddove invece per i debiti di valore se ne afferma la piena ammissibilità.

L’obbligazione di risarcimento del danno per inadempimento di obbligazioni contrattuali diverse da quelle pecuniarie, costituisce al pari dell’obbligazione risarcitoria da responsabilità contrattuale, un debito 

non di valuta, ma di valore, in quanto tiene luogo della materiale utilità che il creditore avrebbe conseguito se avesse ricevuto la prestazione dovutagli, sicché deve tenersi conto della svalutazione monetaria frattanto intervenuta, senza necessità che il creditore stesso alleghi e dimostri il maggior danno ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ., detta norma attenendo alle conseguenze dannose dell’inadempimento, ulteriori rispetto a quelle riparabili con la corresponsione degli interessi, relativamente alle sole obbligazioni pecuniarie (Cass. civ., scz. II, 172002, n. 9517).

L’obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale ha per oggetto l’integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato; pertanto, nella domanda di risarcimento del danno deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di compenso per il pregiudizio subito dal creditore a causa del ritardato conseguimento dell’equivalente monetario del danno e non incorre in vizio di ultrapetizione il giudice che, in mancanza di espressa domanda, liquidi il conseguente danno da lucro cessante(Cass. civ., sez. I, 482000, n. 10263).

Nelle obbligazioni di valore, quale quella risarcitoria, il danaro non costituisce oggetto dell’obbligazione di dare, ma solo il metro di commisurazione del valore che occorre corrispondere al creditore perché questi sia reintegrato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto.

In tali obbligazioni la rivalutazione monetaria non rappresenta il possibile strumento di risarcimento dell’eventuale maggior danno da mora indotto dalla svalutazione monetaria rispetto a quello già coperto dagli interessi legali come accade nelle obbligazioni pecuniarie ai sensi dell’art. 1224, comma secondo, cod. civ. ema costituisce il necessario mezzo di commisurazione attuale del valore perduto dal creditore in termini monetari attuali anche in difetto di esplicita richiesta di rivalutazione tenendo comunque conto della svalutazione monetaria intervenuta tra la data del fatto e quella della liquidazione se il danno era determinabile in una somma di denaro in relazione all’epoca in cui era stato prodotto.

Ulteriore corollario è che, valendo la rivalutazione a realizzare il petitum originario, per i debiti di valore essa può essere effettuata d’ufficio anche in appello, salvo che il danneggiato non abbia manifestato un’espressa ed inequivoca volontà contraria (Cass. civ.,sez. III, 14112000, n. 14743). L’obbligazione di risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale costituisce, al pari dell’obbligazione risarcitoria da responsabilità extracontrattuale,un debito non di valuta, ma di valore, sicché deve tenersi conto sia degli interessi, sia della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione (Cass. civ., sez. II, 7298, n. 1298).

Con riguardo al credito pecuniario di natura previdenziale, che venga pagato in ritardo dall’ente debitore, deve riconoscersi all’assicurato il diritto di ottenere, a partire dalla data di costituzione di mora (nella specie, in 

relazione a pensione corrisposta dall’I.N.P.S., data del provvedimento di rigetto della domanda amministrativa dell’assicuratoti, o, in caso di silenzio dello ente, scadenza del centoventesimo giorno dalla presentazione di detta domanda), gli interessi moratori al tasso legale del 5 per cento, quale risarcimento minimo e forfettizzato, fissato dall’art. 1224 primo comma cod. civ. indipendentemente da qualsiasi prova circa il danno.Peraltro, qualora detto creditore, anche alla stregua della sua qualità di pensionato e della non rilevante entità del credito,deduca e dimostri la sua appartenenza alla categoria dei «modesti consumatori», al fine di conseguire, a norma dell’art. 1224 secondo comma cod. civ., il risarcimento del maggior danno derivante dal deprezzamento della moneta nel periodo della mora, e tale risarcimento gli venga accordato con il sistema della rivalutazione del credito previdenziale in base agli indici Istat di variazione dei prezzi al consumo, il relativo importo copre l’intera area del danno,fino al momento della sua liquidazione, e non può essere cumulato con i menzionati interessi, i quali, pertanto, se già attribuiti o corrisposti, devono essere detratti dal risarcimento quantificato con l’anzidetto sistema (ferma poi restando la spettanza degli interessi legali a partire dal giorno della pronuncia giudiziale di liquidazione del danno fino al giorno dell’effettivo soddisfacimento del creditore) (Cass. civ., Sez. Un., 11289, n. 5299).

risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto, cioè al tempo in cui l’inadempimento è divenuto definitivo, e il prezzo pattuito; differenza che va rivalutata al tempo della liquidazione del danno onde compensare gli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio.

Se è vero, poi, che le tabelle Istat di variazione dei prezzi al consumo, in quanto più direttamente attinenti al mercato dei beni di utilizzazione da parte delle famiglie, non tengono conto delle quotazioni di mercato degli immobili e non possono,pertanto, essere utilizzate per la valutazione delle variazioni nel tempo dei valori di questi ultimi, non è men vero che l’accertamento può aver luogo, quanto meno, mediante il ricorso a dati di comune esperienza, in quanto tali noti al giudice e non necessitanti di prova, quali altre tabelle Istat, quelle relative alle variazioni di prezzi per le costruzioni edilizie e, dunque, con specifica considerazione delle fluttuazioni del mercato edilizio (Cass. civ.Sez. II, 17112003, n. 17340).

Il danno da ritardato conseguimento delle somme liquidate per debiti di valore, come il danno da inadempimento contrattuale o da illecito extracontrattuale, deve essere determinato computando gli interessi prima sull’originario equivalente pecuniario del bene perduto e quindi sui progressivi adeguamenti del medesimo in corrispondenza della sopravvenuta inflazione, secondo scadenze temporali fisse,ovvero mediante l’utilizzazione in via equitativa di indici annuali medi di svalutazione, restando escluso che gli interessi possano essere calcolati dalla data dell’illecito o da quella della domanda giudiziale sull’intera somma rivalutata definitivamente (Cass. civ.,sez. II, 28397, n. 2780).

Il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, mentre è da escludere per i debiti di valuta, peri quali è possibile soltanto allegare l’esistenza di un «maggior danno» rispetto agli interessi, ai sensi dell’art. 1224 cod. civ., va invece riconosciuto per i debiti di valore – fra i quali è compreso anche quello di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale per i quali la rivalutazione monetaria e gli interessi sulla somma liquidata assolvono a funzioni diverse, poiché la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale era anteriormente al fatto generatore del danno e a porlo nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se l’evento non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che le due misure sono giuridicamente compatibili e che pertanto sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass. civ., sez. II,1797, n. 5845).

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata «per equivalente», con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva(anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma.

Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso; in siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell’illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio (Cass. civ., Sez. Un., 17295, n. 1712).

▪ L’obbligazione avente ad oggetto il risarcimento del danno da fatto illecito configura un debito di valore, con la conseguenza che il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria verificatasi sino alla data della decisione, in quanto l’integrale ed effettiva reintegrazione del patrimonio del danneggiato nella situazione in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’evento dannoso, alla quale il risarcimento è preordinato, può essere conseguita solo tenendo conto di tale svalutazione. Sulla somma come liquidata vanno poi accordati gli interessi compensativi che costituiscono una componente dell’obbligazione risarcitoria e, come tali, spettano di pieno diritto al danneggiato, anche in assenza di un’espressa domanda (Cass. civ., sez. III, 16395, n. 3072).

▪ Il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al prominente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto (cioè, al tempo in cui l’inadempimento è diventato definitivo) ed il prezzo pattuito.

Tale differenza va rivalutata al tempo della liquidazione dell’indicato danno, per compensare gli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio; mentre non va rivalutato il prezzo eventualmente pagato dal promittente acquirente, essendo questo tempestivamente entrato nel patrimonio del promittente venditore (Cass. civ., Sez. Un., 25794, n. 6938).

• In tema di debiti di valore, la rivalutazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento dei danni e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono funzioni diverse, poiché la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima del fatto illecito generatore del danno ed a porlo nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se l’evento dannoso non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che le due misure sono giuridicamente compatibili e che sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi a decorrere dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass. civ., sez. III, 281294, n. 11257).

• Il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente, in caso di mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita per fatto imputabile al promittente venditore, deve comprendere la perdita subita ed il lucro cessante, consistente quest’ultimo, quando il contratto ha per oggetto un immobile, nel mancato incremento dovuto al fatto che il bene non è entrato nel patrimonio del compratore e che si concretizza nella differenza tra l’attuale valore commerciale del bene ed il prezzo pattuito.

Nella liquidazione del lucro cessante si deve altresì tener conto se il prezzo sia stato o non, in tutto o in parte, corrisposto, e della utilizzazione che il promissario acquirente abbia fatto del prezzo non versato al venditore, facendo riferimento, in difetto di prova di un diverso impiego, a criteri presuntivi rimessi al prudente apprezzamento del giudice del merito, quali, ad esempio, gli interessi bancari correnti, ovvero al vantaggio economico derivante dalla mancata assunzione di mutui con i relativi oneri (Cass. civ., sez. Il, 30192, n. 1006). Con particolare riferimento alla natura dell’ obbligazione avente ad oggetto la restituzione di somme versate in forza di un contratto risolto per inadempimento.

• In caso di inadempimento di contratto preliminare, il giudice ben può, in assenza di domanda di risoluzione del contratto, condannare la parte inadempiente al pagamento della penale convenuta, senza pronunciare la risoluzione. La somma dovuta a tale titolo, nella sua funzione di liquidazione preventiva, convenzionale e forfettaria dei danni derivanti dall’inadempimento, costituisce debito di valuta, ed è, pertanto, insuscettibile di rivalutazione. Del pari insensibile al fenomeno della svalutazione monetaria, in quanto debito di valuta e non di valore, è l’obbligo del promittente venditore di restituire la somma ricevuta a titolo di prezzo (Cass. civ., sez. II, 27399, n. 2941).

• L’obbligazione del venditore di restituire al compratore la somma ricevuta a titolo di prezzo, in conseguenza della risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento, configura un debito di valuta, avente per oggetto l’originaria prestazione pecuniaria, del tutto distinto dal risarcimento del danno spettante in ogni caso all’adempiente.

Non può, dunque, procedersi alla rivalutazione automatica della somma dovuta in restituzione, ma della svalutazione monetaria dovrà tenersi conto nella liquidazione dei danni derivanti dalla mancata disponibilità di quella somma (Cass. civ., sez. II, 23195, n. 725).

• Con riguardo alla risoluzione del contratto per inadempimento, l’obbligo di restituire la somma ricevuta a titolo di anticipo del corrispettivo costituisce debito di valuta e non di valore, insensibile, come tale al fenomeno della svalutazione monetaria, salvo che il creditore non dimostri di avere risentito, per l’indisponibilità della somma anticipata — la cui restituzione, peraltro, deve avvenire con le maggiorazioni imputabili a titolo degli interessi compensativi, i quali, tenuto conto della efficacia retroattiva della pronuncia di risoluzione, hanno la funzione di compensare il creditore del mancato godimento dei frutti della somma stessa, eventuali ulteriori danni, e perciò anche di quello sofferto in conseguenza della svalutazione monetaria, e ne chieda il risarcimento (Cass. civ., Sez. Un., 41292, n. 12942).

Punto sulla questione

Sono debiti di valuta le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro ah origine determinata o determinabile, la quale è soggetta, ex art. 1277 c.c., al principio nominalistico.


• Nei debiti di valore, la pecuniarietà dell’obbligazione non è originaria, ma rappresenta solo l’equivalente di una diversa obbligazione primaria, per cui l’oggetto della prestazione è ab origine diverso dalla dazione di una somma di denaro,,che ne costituisce soltanto la traduzione in termini pecuniari. • In tema di debiti di valore, la rivalutazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento dei danni e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono funzioni diverse, poiché la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima del fatto illecito generatore del danno ed a porlo nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se l’evento dannoso non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che le due misure sono giuridicamente compatibili e che sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi a decorrere dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso.

Il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto, cioè al tempo in cui il contratto è divenuto definitivo, e il prezzo pattuito; differenza che va rivalutata al tempo della liquidazione del danno onde compensare gli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio.

LA NOSTRA CONSULENZA GIURIDICA

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Nella questione prospettata, abbiamo suggerito al nostro utente sig. Verdi, che recandosi al suo legale di fiducia potrà sicuramente chiedere oltre che la risoluzione per inadempimento anche il risarcimento del danno.

La giurisprudenza è ricorrente nel qualificare l’obbligazione risarcitoria conseguente ad illecito aquiliano come debito di valore. È opportuno precisare che, secondo un dato oramai acquisito nella giurisprudenza, rientrano in quest’ ultima categoria tutte le obbligazioni risarcitorie e, quindi, anche quelle da responsabilità contrattuale. L’obbligazione di risarcimento del danno, quindi, ancorché derivante da inadempimento contrattuale, configura un debito di valore, in quanto intesa a reintegrare completamente il patrimonio del danneggiato, onde resta sottratta al principio nominalistico, e deve, pertanto, essere quantificata dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta.

Trattandosi di un debito di valore, andrà riconosciuto il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, in quanto l’una e l’altra assolvono a funzioni diverse. La prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato ponendolo nella condizione in cui si sarebbe trovato se l’inadempimento non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa; ne consegue che le due misure sono giuridicamente compatibili e che, pertanto, sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi, il cui calcolo va effettuato con riferimento ai singoli momenti in relazione ai quali la somma si incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria ovvero ad un indice medio.

Nell’ammontare del risarcimento del danno, dunque, spetterà a Verdi anche l’incremento di valore dei due appartamenti, la cui cessione faceva parte del corrispettivo pattuito per l’opera appaltata.

Il risarcimento del danno dovuto a Verdi, quale promissario acquirente, per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita degli appartamenti, consiste nella differenza tra il valore commerciale di beni medesimi al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto, cioè al tempo in cui l’inadempimento è divenuto definitivo, ed il prezzo pattuito.

Differenza che va, inoltre rivalutata al tempo della liquidazione del danno onde compensare gli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio. 
Per completezza espositiva va rilevato che il prezzo pagato da l nostro cliente sarà, invece solo oggetto di una obbligazione di restituzione senza alcuna rivalutazione. Infatti con riferimento alla natura della obbligazione avente ad oggetto la restituzione di somme versate in forza di un contratto risolto per inadempimento, la giurisprudenza oggi dominante ne afferma la natura di debito di valuta e, come tale, non soggetta all’automatica rivalutazione monetaria ma sottoposta agli effetti del principio nominalistico.

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