Mobbing e dequalificazione professionale
Succede che Tizio (nome di fantasia), dipendente della società Alfa con funzioni di direttore di negozio, a seguito di screzi con l’amministratore della predetta società, viene trasferito ad un negozio più piccolo e con mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte.
Poco dopo Tizio si dimette dalla società Alfa, ma decide di recarsi da un legale per ottenere il risarcimento del danno subito ed esponendo che a seguito della dequalificazione era peggiorato notevolmente il suo stato di salute, avendo iniziato a soffrire di colite, gastrite e depressione.
I nostri Legali hanno scritto e risposto al nostro utente la seguente consulenza giuridica:
Il caso in esame richiede l’analisi della questione delle mansioni da attribuire al lavoratore.
L’art. 2103 c.c. stabilisce infatti che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto od a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Tale disposizione non priva il datore-di lavoro della facoltà di organizzare l’azienda, ma assicura al dipendente il diritto di svolgere funzioni confacenti alle proprie qualità ed in virtù delle quali è stato assunto.
La norma, quindi, vuole incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle clausole contrattuali che prevedono il mutamento delle mansioni non dovute ad esigenze produttive ed organizzative, e mira ad impedire che ciò avvenga contro la volontà del lavoratore ed in suo danno; dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui il muta-mento delle mansioni od il trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un’esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro che l’abbia invece subita (Cass, 20-5-1993, n. 5695).
La norma, più precisamente, pone un divieto (di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori) e attribuisce due facoltà (di assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti o a mansioni superiori). Al lavoratore, quindi, possono essere richieste attività corrispondenti a mansioni inferiori solo incidentalmente e marginalmente (Cass. 25-2-1998, n. 2045).
L’assegnazione a mansioni inferiori non comporta, però, automaticamente la possibilità per il lavoratore di rifiutare i compiti assegnati.
Il lavoratore, cioè, non può rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa se il datore di lavoro assolve a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura assicurativa e previdenziale, assicurazione del posto di lavoro), potendo una parte rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 c.c. solo se è totalmente inadempiente l’altra parte.
Come precisato dalla giurisprudenza, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto dei risultati delle due indagini (Cass. 27-2-2001, n. 2859).
Per quanto attiene ai doveri del datore di lavoro, questi ha l’obbligo non solo di non assegnare il lavoratore a mansioni inferiori, ma anche quello di non tenerlo in forzata inattività, poiché il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, ma anche di estrinsecazione della personalità. Il datore che adibisce il dipendente a mansioni inferiori oltre a violare l’art. 2103 c.c. lede anche i diritti fondamentali riconosciuti al lavoratore come cittadino il quale esplica la propria personalità anche nel posto di lavoro (artt. 1 e 2 Cost.).
La dequalificazione professionale, pertanto, spiegando i suoi effetti anche nella vita di relazione dell’interessato, ha una dimensione patrimoniale che la rende suscettibile di risarcimento anche a prescindere dall’esistenza di un contratto di lavoro, e perciò sotto forma di danno da fatto illecito (cd. responsabilità aquiliana) ex art. 2043 c.c. In concorso con siffatto titolo risarcitorio, può sussistere quello da inadempimento contrattuale: se vi è un contratto, la suddetta lesione trova tutela nel rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio ex artt. 1174 e 1321 c.c., ma coinvolge la persona del dipendente come uomo che lavora.
Riduzione qualitativa delle mansioni
In ipotesi di riduzione qualitativa delle mansioni, caratterizzata dalla sottrazione di alcune di esse ad una categoria di lavoratori e dall’attribuzione delle medesime ad altra più qualificata categoria, la domanda dei lavoratori che precedentemente svolgevano le mansioni loro sottratte, al riconoscimento di detta categoria superiore, con il conseguente trattamento economico e normativo, include implicitamente quella di riattribuzione delle mansioni sottratte, stante la nullità anche delle pattuizioni collettive comminata dall’ultimo comma dell’art. 2103 cod. civ., e, per il caso in cui tale riattribuzione sia impossibile a causa della ristrutturazione dell’attività imprenditoriale, la domanda delle differenze retributive spettanti a titolo risarcitorio del danno conseguente alla dequalificazione professionale (Cass. 25-5-89, n. 2516).
L’art. 2103 cod. civ., pur nel nuovo testo, non ha eliminato lo ius variandi del datore di lavoro, ove giustificato da esigenze organizzative e direzionali ovvero da radicale e profonda ristrutturazione dell’azienda, ma ne ha limitato rigorosamente l’esercizio.
Ne consegue che, qualora il dipendente ne contesti la legittimità per asserita dequalificazione professionale, l’indagine devoluta al giudice di merito, da effettuare per gradi, si articola in varie direzioni e afferisce:
- a) all’eventuale violazione del livello retributivo raggiunto;
- b) all’accertamento delle mansioni previste nell’atto dell’assunzione e concretamente poi svolte, nonché all’esatto inquadramento delle stesse nel corrispondente livello del contratto collettivo di categoria;
- c) alla rigorosa individuazione delle nuove mansioni affidate al lavoratore, inquadrandole come da contrattazione collettiva; all’equivalenza o meno delle nuove mansioni a quelle precedentemente espleta-te, rispetto all’inquadramento astratto e formalistico di categoria secondo il CCNL;
- e) all’accertamento comparativo delle stesse in concreto, sotto il pro-filo della loro equivalenza o meno in relazione alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto e all’utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta;
- f) all’applicazione dei principio secondo cui il lavoratore deve essere adibito a funzioni confacenti alle proprie qualità, nell’ottica di un costante loro affidamento e di una progressiva evoluzione delle stesse. (Fattispecie relativa al trasferimento, da parte dell’Ente Poste Italia-ne, di alcuni dipendenti dall’Ufficio tecnico presso il quale erano utilizzati con la qualifica di assistenti disegnatori di V categoria, al Centro Meccanizzazione Postale, preceduto dall’allontanamento di un rilevante numero di dipendenti dal CMP) (Cass. 17-3-99, n. 2428).
Il precetto di cui all’art. 2103 cod. civ., volto a tutelare la professionalità del lavoratore, non vieta al datore di lavoro — in relazione ad effettive esigenze dell’impresa — di richiedere occasionalmente al prestatore stesso, l’espletamento di compiti diversi da quelli propri della qualifica attribuita, purché con questi oggettivamente connessi, in relazione al loro contenuto e durata e alla natura dell’attività svolta nell’impresa, e tali che il loro espletamento (mantenendosi in ogni caso la normalità dello svolgimento delle mansioni direttamente pertinenti alla qualifica stessa) non determini un pregiudizio per la figura professionale del dipendente (Cass. 10-6-93, n. 6464).
L’art. 2103 (nuovo testo) c.c. vieta (fra l’altro) che il lavoratore sia adibito a mansioni diverse da quelle per le quali è stato assunto o da quelle «corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito», sancendo la nullità di ogni patto contrario. Pertanto, ai sensi di detta norma, che intende tutelare e valorizzare la professionalità del lavoratore, a questo non possono essere assegnate — neppure solo temporaneamente o in aggiunta a quelle proprie della qualifica rivestita — mansioni professionalmente inferiori a quelle che, secondo le previsioni del contratto collettivo, corrispondono alla categoria da lui conseguita nel corso del rapporto di lavoro, a nulla rilevando che egli continui a godere del trattamento economico proprio di tale categoria e che dette mansioni (di valore professionale inferiore) gli siano state assegnate al momento dell’attribuzione della superiore qualifica e successivamente o che alle medesime egli fosse addetto in precedenza (Cass. 16-7-86, n. 4602). Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno, la quale costituisce presupposto indispensabile per una sua valutazione equitativa.
Tale danno non si pone infatti quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopra indicata categoria, onde non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesi-va della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno subito fornirne la prova in base alla regola generale dell’art. 2697 cod. civ. (Cass. 11-8-98, n. 7905; conf. Cass. 4-2-97, n. 1026; Cass. 18-4-96, n. 3686; Cass. Sez. L, 14-5-2002, n. 6992). Dall’art. 2103 cod. civ. si desume che sussiste il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
Tale danno (detto anche danno professionale) può assumere aspetti diversi in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.
È compito del giudice del merito — le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità — accertare se in concreto il suddetto danno sussista, individuarne la specie e determinarne l’ammontare eventualmente procedendo anche ad una liquidazione in via equitativa (Cass. Sez. L, 14-11-2001, n. 14199).
Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento della assunzione in servizio può deriva-re non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, da cui consegue il diritto dell’interessato al risarcimento del danno (Cass. Sez. L, 12-11-2002, n. 15868).
Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale e la dignità personale del lavoratore. La valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente inutilizzabili parametri economici o reddituali (Cass. N. 10157/2004).
Punto sulla Questione e il parere dei nostri Consulenti Legali
Ai sensi dell’art. 2103 c.c. il lavoratore deve essere adibito alle man-per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia nel frattempo acquisito. L’assegnazione a mansioni inferiori non comporta, però, l’automatico diritto del lavoratore di rifiutare i compiti assegnatigli, se gli sono richiesti solo incidentalmente e marginalmente. La dequalificazione professionale spiega i suoi effetti anche nella vita di relazione, in quanto il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, ma anche di estrinsecazione della personalità.
Nel caso di specie Tizio è stato trasferito ad altra unità produttiva ed assegnato a mansioni inferiori a quelle che aveva svolto in precedenza a seguito di contrasti con l’amministratore del-la propria azienda. Si è in presenza di un provvedimento illegittimo che non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma si traduce in lesione di un diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione della sua personalità anche nel luogo del lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento (Cass, 13299 del 1992; Cass. 11727 del 1999).
Di conseguenza i provvedimenti datoriali, come quelli adottati, nel caso di specie vengono a ledere anche l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di chances per futuri lavori di pari livello.
Nella specie l’essere assegnato ad un esercizio commerciale più piccolo e decentrato, con mansioni inferiori ha indubbiamente leso in maniera illegittima l’immagine professionale di Tizio.
In ordine all’entità del danno la giurisprudenza assolutamente prevalente ritiene che sia onere del lavoratore di provare l’esistenza del danno stesso (Cass. 14-5-2002, n. 6992; Cass. 11-8-1998, n. 7905; Cass. 18-4-1996, n. 3686; contea Cass. 18-10-1999 n. 11727 che sembra ritenere sussistente il danno in re ipsa), an-che se la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura, privo delle caratteristiche della patrimonialità deve essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economico-reddituali (Cass. 8827 del 2003).
Infine merita un breve cenno la questione relativa al peggioramento dello stato di salute di Tizio: questi lamenta infatti che a seguito del trasferimento le sue condizioni di salute sono peggiorate e chiede pertanto il risarcimento del relativo danno. Al riguardo è possibile osservare che il dipendente può anche ottenere il risarcimento del danno biologico subito a causa del mutamento di mansioni (Cass. 11-8-1998, n. 7905), ma deve in maniera rigorosa provare il nesso eziologico tra il trasferimento ed il deterioramento del suo stato di salute. Occorre cioè dimostrare che il danno alla salute è stata conseguenza immediata e diretta dell’illegittima dequalificazione, non potendosi ritenere sufficiente nemmeno una minima coincidenza temporale.
Il caso di specie è stato tratto da:
- il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavorò, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale e la dignità personale del lavoratore. La valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali.