I contratti collettivi di lavoro: rapporti tra contratti collettivi e legge e tra contratti di diverso livello
Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra un datore di lavoro ed una organizzazione o più lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.
Esso si caratterizza:
- per i soggetti in quanto viene stipulato tra parti, di cui una almeno, quella dei prestatori di lavoro, deve essere costituita da soggetti coalizzati;
- per l’oggetto, in quanto con esso si intende predeterminare con carattere impegnativo tra le parti, le clausole e le condizioni dei futuri contratti dei singoli prestatori appartenenti alla categoria.
Il nostro ordinamento ha conosciuto varie tipologie di contratti collettivi (corporativi, quelli previsti dall’art. 39 della Costituzione) ma l’unico tipo di contratto che attualmente viene stipulato è il contratto collettivo di diritto comune così denominato in quanto regolato dalle norme di diritto civile in materia contrattuale.
Questo contratto vincola esclusivamente gli associatati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato.
I rapporti di lavoro, purtroppo, grazie all’inefficienza nella capacità e competenze ad emanare regole coerenti, è regolata da più fonti (leggi, contratti nazionali, aziendali) ed occorre quindi esaminare i problemi derivanti dalla coesistenza di questi.
Contratto Collettivo e Legge
La regola generale è che quando il contratto collettivo contiene deroghe rispetto alle disposizioni di legge, queste ultime dovrebbero prevalere. Questo criterio viene però attenuato dal principio di favore verso il lavoratore (c.d. favor prestatoris) che fa prevalere, tra più fonti regolatrici del rapporto di lavoro,quella più favorevole verso il lavoratore.
Come abbiamo visto quindi, la norma di legge può essere derogata dal contratto collettivo che preveda condizioni migliorative. In alcuni casi, per superare momenti di difficoltà industriali ed occupazionali, leggi speciali hanno consentito alla contrattazione collettiva di scendere al di sotto dei limiti di tutela delineati dalla legge.
Contratto collettivo e contratto individuale
Il contratto individuale può derogare solo in melius quello collettivo; la giurisprudenza afferma tale principio facendo leva sull’articolo 2077, secondo comma, del codice civile, che prevede la sostituzione delle clausole dei contratti individuali con quelle dei contratti collettivi, a meno che non contengano condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro (Cassazione – n. 20201/1988)
Nel caso di contratti collettivi di diverso livello invece il problema si pone principalmente per quanto concerne i rapporti tra contratti collettivi e contratti aziendali. La giurisprudenza è concorde nel sostenere che i contratti aziendali, aventi natura ed efficacia di contratti collettivi, possono derogare, anche in peius per i lavoratori, ai contratti collettivi nazionali, non essendo applicabile il principio dell’art. 2077 citato: che si riferisce ai soli rapporti tra contratto collettivo ed individuale di lavoro.
Infatti i contratti aziendali, non consistendo nella somma di più contratti individuali, bensì in atti generali, possono avere efficacia modificativa di precedenti accordi collettivi dello stesso o diverso livello e determinare pertanto, nuovi trattamenti dei dipendenti dell’azienda, vincolando questi ultimi all’osservanza della normativa con essi introdotta.
Contratti collettivi ed usi aziendali
Si intendo per contratti collettivi ed usi aziendali quei comportamenti tenuti dal datore di lavoro con apprezzabile continuità o reiterazione nei riguardi dell’intero personale o di settori più o meno ampi dello stesso. Si ritiene che gli usi aziendali possono essere assimilati agli usi contrattuali con la conseguenza che possono modificare solo in melius il contratto collettivo, alla stregua di un qualunque accordo individuale.
Successione di contratti collettivi e diritti quesiti
I diritti quesiti sono i diritti che già fanno parte del patrimonio di un soggetto, tuttavia può accadere che contratti collettivi o leggi successive incidano sugli stessi.
In via preliminare è possibile osservare che, in presenza di un sistema di contrattazione collettiva di stampo privatistico, il principio dei diritti quesiti è di regola riferibile al solo caso di successioni di norme di legge, ma non a quello della successione di contratti collettivi di diritto comune che è invece retta dal principio della libera volontà delle parti.
Tuttavia un successivo contratto collettivo non può incidere sui diritto sorti, a favore delle parti del rapporto di lavoro, in virtù di un precedente contratto collettivo quando tali diritti sono sorti per effetto di prestazioni già eseguite alla stregua della disciplina all’epoca vigente, e correlate all’attività lavorativa svolta.
In questo caso infatti, il successivo contratto collettivo verrebbe non a regolare diversamente per il futuro un determinato rapporto, ma inciderebbe su diritti nati da prestazioni già svolte ed ormai entrate a far parte del patrimonio di un soggetto.
Questa interpretazione potrebbe non applicarsi a tutte quelle progressioni economiche avvenute magicamente all’interno della pubblica amministrazione prima della riforma dell’ex Ministro Brunetta. Sicché potrebbe verificarsi il caso che i dipendenti pubblici per esempio con profilo professionale B1, C1, D1 passati per progressione economica a B4, B2, B3, C2, C4,D6,D3 dal mio punto di vista, non avendo effettuato nessuna prestazione in merito (sempre quelle sono le prestazioni) potrebbero non avere diritto a quella progressione perché superata dalla legge Brunetta, ovvero titolo di accesso alla progressione economica superiore. Pertanto oggi un funzionario di ente pubblico non potrebbe non avere una laurea. Eppure non è così.
Web Content D.Giammarelli