Ma questo nostro Stato nelle persone dei parlamentari e dei giudici vuole proprio una vita criminale? Possibile che vogliamo incrementare le entrate della criminalità? Possibile che lo Stato italiano mette sullo stesso piano la coltivazione di una o due piante con coltivazione industriali per fini di spaccio? Come è possibile ledere il bene pubblico con due piante di marijuana. (Commentate pure)
A differenza di molti (anche esperti del settore), i quali ritenevano quasi una formalità l’accoglimento dell’eccezione sollevata dalla Corte di Appello di Brescia, a proposito dell’art. 75 dpr 309/90 – nella parte in cui non riconosce anche alla coltivazione di piante di cannabis (rectius alla sostanza stupefacente prodotta dalla stessa) l’operatività della scriminante dell’uso personale – ho, invece, costantemente invitato alla cautela ed alla prudenza.
Ho, infatti, sempre pensato che risultasse assai difficile e complessa l’evenienza che il giudice delle leggi potesse discostarsi dai due fondamentali precedenti, rinvenibili, sia nella sentenza 360/1995 – che aveva rigettato già analoga questione – che nella sentenza 28605/2008 delle SSUU, la quale, a propria volta, è sempre stata cardine di quella giurisprudenza che ritiene di punire sostanzialmente l’attività coltivativa.
Sono sempre stato, comunque, convinto che, qualunque fosse stato l’indirizzo della decisione della Corte Costituzionale, la sostanza del problema sollevato dalla Corte di Appello di Brescia non sarebbe mutata significativamente e che l’approccio a processi per coltivazione non sarebbe mutato sostanzialmente.
Ne sono tuttora convinto, anche in presenza di una decisione di rigetto e pur in attesa della lettura della motivazione.
Rilevo, infatti, che anche se l’opinione del giudice delle leggi si fosse mai orientata per l’accoglimento dell’eccezione, la coltivazione sarebbe rimasta comunque un reato, perchè è plastico che la legge avrebbe continuato a prevederla come tale all’art. 73 comma 1 e 4 dpr 309/90.
La coltivazione avrebbe potuto – al più – essere scriminata, in tutti quei casi concreti, in cui essa si ponga in rapporto funzionale rispetto alla causa di non punibilità dell’uso personale e si sarebbe, quindi, trovata effettivamente equiparata a quelle condotte già testualmente e tassativamente previste dall’art. 75 comma 1 dpr 309/90(detenzione, importazione, esportazione ed acquisto).
Ricordo, a conferma dell’assunto, che lo stato attuale dell’arte ci offre un quadro di faticosa, seppure positiva, evoluzione, posto che, sia in sede di merito, che (più sporadicamente) di legittimità – attraverso l’applicazione del paradigma dell’offensività concreta della condotta – la giurisprudenza è già reiteratamente pervenuta a pronunzie assolutorie in situazioni di piccole piantagioni.
Dunque, la odierna sentenza reiettiva del giudice delle leggi non credo possa avere un concreto ed effettivo impatto sfavorevole sul cammino di articolata evoluzione ermeneutica in atto, da parte dei giudici, rispetto alla liceità della condotta coltivativa domestica.
Per completezza, si possono, comunque, formulare alcune osservazioni relative alle conseguenze che si sarebbero potute verificare nell’ipotesi in cui la Consulta avesse riconosciuto l’operatività dell’esimente dell’uso personale anche riguardo alla coltivazione di piante di cannabis.
Si tratta di conseguenze la cui portata effettiva sul piano processuale lascio valutare a chi avrà la pazienza di proseguire nella lettura.
Si evidenziano così tra le possibilità che un giudizio favorevole avrebbe potuto comportare:
1- la codificazione formale ed effettiva di un argomento (di favore per l’imputato) – la destinazione ad uso personale del prodotto della coltivazione – che non solo risulta rilevante in ordine al giudizio di offensività della condotta, ma che è già stato valorizzato in termini assolutori in plurime sentenze dalla Corte di Cassazione (Sez. VI n. 33835/14, Sez. IV n. 9156/15, Sez. III n. 49386/15, Sez. VI n. 5452/16). Non sarebbe stato, affatto, introdotto nell’ordinamento un automatismo del processo deliberativo del giudice, il quale, invece, avrebbe mantenuto inalterato il proprio potere discrezionale (anche se in termini maggiormente circoscritti). I processi, o quanto meno che le indagini penali, diversamente da quanto qualcuno riteneva, avrebbero avuto ancora corso;
2 – la sostituzione del parametro interpretativo consistente nel pericolo astratto che la coltivazione (specificamente esaminata) possa creare un accrescimento dell’offerta di stupefacente sul mercato illecito con quello della valutazione in ordine alla effettiva destinazione del prodotto della singola coltivazione.
La lotta alla diffusione dello stupefacente è il cd. bene giuridico che il dpr 309/90 tutela.
Tuttora il giudice, infatti, deve operare una proporzione fra l’entità, la potenzialità della coltivazione e la capacità di incidenza specifica del prodotto così ottenibile (ed ottenuto rispetto) e la portata (nonché l’estensione concreta) della domanda del mercato di riferimento geografico degli stupefacenti.
La illegittimità costituzionale dell’art. 75 avrebbe, quindi, imposto al giudice di operare un giudizio di valenza con termini radicalmente nuovi e diversi, del tutto analoghi a quelli utilizzati per ’ipotesi di condotta detentiva di stupefacenti.
Essi sarebbero, pertanto, consistiti nell’operare la comparazione fra il numero delle piante, il principio attivo presente, il quantitativo ricavabile, rispetto al plausibile consumo personale del coltivatore-assuntore (caratteristica questa indefettibile);
3 – la riconsiderazione del concetto di offensività (che, peraltro, è già stato valorizzato dalla giurisprudenza) così da individuare, con maggiore precisione e rigore le situazioni insuscettibili di rilevanza penale.
Va ricordato che la rilevanza, ai fini penali della destinazione ad uso personale del prodotto della coltivazione – seppur in concorso con altri elementi –, è stata già ritenuta dalla attuale giurisprudenza[2], quale elemento idoneo a privare di antigiuridicità (e dunque di offensività) la condotta dell’agente.
L’incidenza della causa di non punibilità dell’uso personale nel giudizio prognostico in questione, avrebbe, quindi, assunto confini nuovi e più ampi nella complessiva dinamica delibativa.
Sarebbe stato, così, possibile il superamento di quell’indirizzo ermeneutico che concepisce l’inoffensività di una condotta esclusivamente nell’ipotesi in cui quest’ultima esprima livelli di illiceità impercettibile (ad esempio in presente di quantità di principio attivo, THC, quasi inesistenti) espresso proprio dal dictum del citata sentenza 28605/2008 delle SSUU.
4 – La riviviscenza effettiva ed ufficiale delle due categorie ontologiche della coltivazione domestica e della coltivazione agraria.
Si tratta di una distinzione che ebbe particolare rilievo tra il 2005 ed il 2008, sino a che le SS.UU. con la sentenza 28605, non esclusero che tale bipartizione potesse produrre effetti di carattere giuridico in materia.
Si sarebbe potuto così rigorosamente differenziare, già in radice, fenomeni di coltivazione per autoproduzione da situazioni di coltivazione su larga scale destinate alla produzione di sostanza per il successivo spaccio.
5 – Il regime dell’onere della prova avrebbe subito modifiche che lo avrebbero allineato con i principi generali in materia.
Questa sarebbe stata la novità procedimentale di maggiore rilievo e pregnanza. Allo stato attuale, infatti, è l’indagato che deve dimostrare che la sua produzione coltivativa non è idonea a creare un aumento dell’offerta di sostanza stupefacente rispetto al mercato di teorica destinazione geografica.
Vale a dire che – conformemente ai principi generali vigenti codicisticamente – sarebbe, invece, rimasto sempre a carico del PM il dovere di dimostrare che la condotta coltivativa risulti propedeutica – in toto od in parte – alla successiva diffusione del prodotto a terzi e non sia, quindi, esclusivamente orientata alla soddisfazione della necessità personale del coltivatore.
Si sarebbe, quindi trattato di un importante passo avanti.
Ad onor del vero, però, per la quotidiana esperienza forense maturata credo, comunque, che il mancato riequilibrio dell’onus probandi occasione non incida più di tanto nelle dinamiche processuali, in quanto si rende sempre necessario nei procedimenti penali per coltivazione un minimo onere di allegazione difensiva.
Non si può, pertanto, affatto plausibilmente sostenere che l’indagato/imputato di condotte coltivative possa difendersi dall’accusa senza addurre, nel proprio interesse, quegli elementi di prova che lo possano giustificare, nella speranza dell’inerzia o della negligenza dell’accusa.
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Appare, da ultimo, evidente decisiva – ai fini della sentenza di non fondatezza della questione di costituzionalità, sollevata dalla Corte di Appello di Brescia – l’influenza degli indirizzi ermeneutici che hanno ispirato precedenti decisioni – in tema di coltivazione – sia della Consulta, che della Cassazione.
Non è, infatti, per nulla casuale che il comunicato stampa della Corte si chiuda affermando che “La decisione è riferita all’art. 75 del testo unico in materia di stupefacenti ed è stata assunta nel solco delle sue precedenti pronunce in materia”.
La palla ora è stata spedita nel campo del legislatore.
(Altalex, 10 marzo 2016. Nota di Carlo Alberto Zaina)